"Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso per chiudere verso sud il continente tra due mari (....) è un così bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l'una dall'altra; spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l'acqua."
J. W. Goethe, Viaggio in Italia (1786 - 1788)
Un patrimonio culturale da salvare: il dialetto
di Roberto Serra

Nella montagna emiliano-romagnola, oltre ai meravigliosi panorami ed ai cibi gustosi, sempre più gente sta imparando ad apprezzare un altro importantissimo bene culturale: il dialetto. Si moltiplicano dunque le iniziative volte a salvarlo ed a tramandare nel futuro questa espressione di millenni di storia.

La prima operazione mentale da fare nel rapportarsi al dialetto è questa: rendersi conto di come esso sia un prezioso bene culturale.

In un’epoca in cui giustamente si è riconosciuto il valore dei beni monumentali e ambientali, e si cerca di tutelarli nel modo più incisivo possibile, è necessario che lo stesso avvenga per la nostra parlata. Se la montagna perdesse il proprio dialetto, sarebbe come se un gigantesco incendio mandasse in fumo tutti i boschi, o se si seccassero tutte le sorgenti.

Un pezzo incommensurabile della nostra storia, della nostra cultura millenaria andrebbe perduto. Andrebbe perduto quel meraviglioso insieme di sensazioni, sonorità, profumi, emozioni che solo il dialetto ci sa mettere nell’animo. Certamente sarebbe più comodo ed economicamente meno gravoso abbattere le antiche case in sasso e costruire al loro posto prefabbricati in cemento, o edificare dovunque aree industriali senza lasciare integro il nostro paesaggio montano.
Ma dove andrebbe a finire l’anima della montagna?

Così per il nostro dialetto, che profuma di castagne. E che porta dentro di sé la nostra storia di millenni, le nostre radici.
Dunque, il primo passaggio è riconoscere nel dialetto un bene culturale da conservare con la più grande cura.

Il secondo passaggio, è far crollare il pregiudizio che ci fa pensare al dialetto come a una “lingua di serie B” rispetto all’italiano. Il dialetto, da un punto di vista glottologico, è un idioma a sé stante. Non è una derivazione dell’italiano, come molti ancora credono, ma una lingua di pari dignità all’italiano (cioè al toscano), che si è evoluta parallelamente a questo, direttamente dal latino.
Le parole bolognesi non derivano dall’italiano, ma dal latino.
Il Bolognese è una lingua a tutti gli effetti e completa, in grado di esprimere ogni tipo di emozione e di sentimento. Con il dialetto si può far ridere, ma anche commuovere.

Occorrerebbe dunque, proprio in quanto consapevoli di ciò, procedere ad una tutela incisiva di quanto è esistente, parallelamente ad un rilancio. Non dunque un lavoro proteso esclusivamente verso il passato, ma con lo sguardo avanti, verso le generazioni future.
Si tratta, cioè, di non trasformare il dialetto in un bene da riporre in un museo, ma in un patrimonio da tramandare e da far apprezzare in tutta la sua ricchezza e valenza culturale.
Cosa dunque concretamente fare in questa direzione?

Innanzitutto, parlare in dialetto senza vergogna, senza timore di sembrare “poco colti”: parlando in bolognese (in lizzanese, porrettano, in tutti i dialetti della montagna) si parla una lingua con tutti i crismi. Si padroneggia uno strumento linguistico autonomo. E occorre parlarlo anche con i giovani!
Poi, lasciare che i giovani provino a parlarlo, senza deriderli nel caso in cui dicano “di sfundón”: correggerli sì, ma incoraggiandoli a parlare in dialetto.

Catalogare i termini, i modi di dire autenticamente dialettali, e che rischiano l’estinzione: fissandoli sulla carta, sarà possibile riutilizzarli sottraendoli alla dimenticanza.
Parlando, dunque, sarebbe bello cercar di evitare i termini che vengono dall’italiano: perché ad esempio dire “albicòca”, brutta copia dell’italiano, quando il termine giusto è “mugnèga”?
E’ giusto poi che ogni luogo, ogni paese parli e conservi il proprio dialetto, la propria variante.

Inoltre, non è azzardato proporre dei corsi di dialetto, rivolti non solo a chi già lo parla, ma anche a chi lo voglia imparare ex novo: ci sono già esperienze del genere. A Bologna ogni settimana pr al Cåurs ed Bulgnais si riuniscono 90 persone, in gran parte giovani, e provenienti dalla città (www.bulgnais.com/corso.html), ma anche da altre zone d’Italia. A Budrio Tiziano Casella fa altrettanto, con Corsi di dialetto budriese organizzati dal Comune, cui partecipano numerosi bambini e ragazzi. Anche a Bentivoglio si tengono corsi di bentivogliese. Questo è un modo di proiettare il dialetto nel futuro, per dargli una speranza di essere vitale anche tra le giovani generazioni. Tra l’altro, proprio i giovani manifestano un grande interesse per il bolognese: non solo con la folta partecipazione ai corsi, ma anche con le numerose visite al sito internet ufficiale del dialetto, “Al Sît Bulgnais” (per chi volesse visitarlo, www.bulgnais.com), e l’adesione alle tante altre iniziative.

Dal canto loro, le Amministrazioni Pubbliche Locali dovrebbero per quanto possibile sostenere queste attività, da un punto di vista organizzativo ed economico.
Si potrebbe poi affiancare ai nomi delle strade, dei paesi, il nome dialettale: In questo senso, ottimo è stato il lavoro di ricerca toponomastica effettuato dal Comune di Granaglione: così, sarebbe bello se in ogni paese della montagna si affiancasse a quella italiana la toponomastica dialettale.

Occorre, dunque, fare tutto il possibile per salvare e ridare nuova vita ai dialetti della montagna, per fare in modo che la nostra parlata, che tanto ci riempie di profumo di autenticità, di sentimento, non diventi solo un vecchio ricordo nella memoria.

Chi fosse interessato a saperne di più sul dialetto della montagna emiliano-romagnola, od a collaborare nella sua tutela, può contattare:
Roberto Serra,
roberto.serra@virgilio.it- Al SîtBulgnais