"Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso per chiudere verso sud il continente tra due mari (....) è un così bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l'una dall'altra; spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l'acqua."
J. W. Goethe, Viaggio in Italia (1786 - 1788)
Storia sull'Appennino Tosco - Emiliano.
Scritti di Claudio Evangelisti


Titolo: IL MULINO MAZZONE TRA DIAVOLI E VINO 1°parte (2013-03-12)



AL MULINO MAZZONE TRA DIAVOLI E VINO
Dei 41 opifici della Valle del Savena è l’unico visitabile e ancora in uso


Lungo la valle del Savena, lo studioso di storia locale Domenico Benni ha localizzato 41 opifici a forza idraulica: si parte dal mulino di Case Mengoni a San Benedetto Val di Sambro, il più alto di tutti, posto a 909 metri di altezza fino ad arrivare alla periferia nord di Bologna dove fuori San Donato esisteva il mulino del Gomito che prendeva forza dalla canaletta del Savena che si raccoglie a Porta Mascarella e sfocia nel Savena Abbandonato. Di tutti questi antichi opifici il Mulino Mazzone è l’unico ancora visitabile e funzionante. Esistente già prima del 1785, prende l’acqua dal Rio del Piattello dove si trova la maggiore concentrazione di mulini in comune di Monghidoro. Per la sua posizione particolare, al centro della valle omonima insieme ad altri 8 mulini e per la sapiente conservazione del complesso fabbricato, risulta una meta affascinante per tutte quelle persone che amano riscoprire i segreti e le usanze della crepuscolare civiltà montanara. Qui ancora negli anni ’60 lavorava l’ultimo mugnaio della valle del Savena: Antonio Galli. Le sorelle Maria e Gabriella Sazzini, discendenti dell’ultimo proprietario del mulino e titolari del forno di Piamaggio, raccontano di questo Galli, loro parente, che sapeva far di tutto ed era abilissimo nel ricavare da un tronco di quercia i catini che facevano girare il rullo delle macine. Raccontano come si sopravviveva in quel mondo arcaico fatto di baratti e strette di mano, usciti dal medioevo solo quando arrivarono gli americani a spruzzare tutti con il DDT. Nel dopoguerra e fino al 1967 delle cinque macine esistenti ne funzionavano tre: una per macinare il mais da usare come mangime, una per le castagne che venivano trasformate in farina per polenta e castagnacci e una per il grano che veniva usato per far la sfoglia anche se non era così bianca come quella di adesso: la crusca non si sbriciolava perfettamente e risultava come le farine integrali che troviamo oggi in commercio. Si macinava per tutti quelli che abitavano tra Castel dell’Alpi e Monghidoro perchè prima della guerra voluta da Mussolini, non esisteva l’odierna strada provinciale e tutti erano obbligati a passare dal Mulino di Mazzone. Il nonno di Maria si chiamava Emilio Sazzini e dal 1910 al 1960 portava la farina a dorso di mulo ai suoi clienti sparsi per la valle: nelle bigonce trovava posto anche una bilancia più piccola che serviva per pesare la “molenda” la quota di prodotto che veniva lasciata come pagamento per il mugnaio. Quella parte di farina era il compenso del mugnaio che l’avrebbe poi trasformato tramite abili baratti, debiti e fatica, nel forno che i Sazzini inaugurarono nel 1968 a Piamaggio. La signora Maria Sazzini racconta anche un’antica “fola” che girava a proposito del confinante mulino del Comune: