"Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso per chiudere verso sud il continente tra due mari (....) è un così bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l'una dall'altra; spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l'acqua."
J. W. Goethe, Viaggio in Italia (1786 - 1788)
Storia sull'Appennino Tosco - Emiliano.
Scritti di Claudio Evangelisti


Titolo: SPONGIA LUCIS LA PIETRA MERAVIGLIOSA CHE INCANTO' GOETHE (2014-02-18)



E’ l’anno del signore 1602, quando un ciabattino di Bologna si sta recando nei pressi del rio Strione che dalla chiesa di Paderno scende verso la località di Rastignano. Costui si chiama Vincenzo Casciarolo ed essendo anche appassionato preparatore di pigmenti, sta cercando delle pietre da macinare che possano servire come base per l’impasto bianco da verniciare sulle calzature. Ad un certo punto, giù per i caratteristici calanchi che contraddistinguono quella parte di collina bolognese vede brillare nell’ombra, delle pietruzze incastonate nell’argilla; Il calzolaio che è anche un alchimista dilettante, non crede ai propri occhi…quale prodigio è mai questo? Quali pietre possono riflettere di luce propria? Il Casciarolo, incredulo ed emozionato portò a casa quelle strane pietruzze a forma di uovo e come per le altre pietre usate per la preparazione dei pigmenti, usò lo stesso procedimento insegnatoli da sua padre: le macinò e le fece cuocere dentro un piccolo fornello. Casciarolo scoprì così che la pietra, dopo essere stata calcinata nel carbone, aveva la capacità di trattenere la luce del sole e riemetterla per un certo tempo. La scoperta, datata tra il 1602 e il 1604, rappresenta la prima osservazione del fenomeno della fosforescenza. In seguito a questa scoperta, il misterioso materiale divenne noto come Pietra di Bologna, o meno frequentemente come,  pietra luciferina,  pietra di luna, spongia lucis (spugna di luce), lapis illuminabilis (pietra illuminabile) o pietra fosforica(in entrambi i casi, "portatrice di luce"). La pietra era costituita da barite che, una volta macinata e calcinata, si trasforma in solfuro di bario. Per circa tre secoli, dai primi del Seicento all’inizio del Novecento, la città di Bologna deve il suo posto nella storia della chimica soprattutto a una pietra, che da essa prese il nome, utilizzata per ricavarne fosfori, ossia materiali capaci di dare fosforescenza. L'attribuzione della scoperta al "chimico" Casciarolo è di Majolino Bisaccione e Ovidio Montalbani, in due lettere pubblicate nel 1634. Quest'ultimo, addirittura, propose di chiamare la pietra "lapis casciarolanus". Il riconoscimento pieno a Casciarolo venne dal famoso scienziato Fortunio Liceti, nell'opera “Litheosforus sive de lapide bononiensi”, pubblicata a Udine nel 1640. Secondo Liceti, fu appunto Casciarolo, uomo di umili condizioni, che trovò la pietra, ne scoprì le proprietà e la mostrò al famoso alchimista bolognese Scipio Bagatello che tentò addirittura di trasformarla in oro. Bagatello ne parlò subito a Magini, professore di matematica a Bologna, il quale ne mandò campioni a vari scienziati, tra cui Galileo Galilei, e ad alcuni sovrani europei. Tutto ciò rese rapidamente famosa la pietra, indusse a riprodurre il procedimento di preparazione dei fosfori e ad interpretarne il comportamento. Nacquero le ipotesi più disparate. Per un certo periodo, da parte di alcuni, si pensò che la pietra si comportasse con la luce così come un magnete si comporta con il ferro. Anche Galileo intervenne nella disputa, con una lettera a Leopoldo di Toscana, scritta per confutare alcune osservazioni di Liceti sulle opinioni dello stesso Galileo in merito al "candor lunare". Alcuni passi del testo di Liceti suonano come un campanello d'allarme per la tradizione aristotelica. Sono infatti affermazioni che sostengono la corporeità della luce e che vengono attribuite da Liceti ad opere del Linceo. Egli afferma che «la luce è un corpo, una parte del quale è attirata dalla pietra di Bologna, come il fuoco lo è dalla nafta, il ferro dal magnete».
Fra i trattati di chimica, il celebre Cours de Chimie di Lémery, farmacista del re di Francia Luigi XIV, è forse quello che si occupa più diffusamente della Pietra di Bologna, anche dal punto di vista sperimentale e con il supporto di una bella tavola esplicativa. Quest’opera ebbe numerose riedizioni e traduzioni. L’ultima edizione, pubblicata in italiano nel 1719 da Gabriele Hertz, racconta la storia della Pietra, spiega come trovarla, ne cita le proprietà depilatorie, descrive minuziosamente il procedimento per farne fosforo e propone una teoria per spiegarne la luminosità.
Certo, Lémery non è indulgente con i predecessori; egli afferma che “Montalbani, Magini, Liceti, e alcuni altri hanno scritto di questa pietra, e hanno date le maniere di calcinarla; ma le loro descrizioni non servono a nulla, perché, seguitandole, non s’ottiene alcun fine”. Gli studi sulla Pietra di Bologna, come documentato dalla letteratura chimica, si protrassero fino al 1940 circa, ma il procedimento e le condizioni che assicurano la piena riuscita della preparazione presentano tuttora qualche incognita. D’altronde, meraviglia e mistero accompagnano da sempre la strana luce della pietra. Anche Goethe ne rimase influenzato e, quando nel 1786 sostò a Bologna, partì dall’albergo Al Pellegrino, uscì da Porta d’Azeglio e imboccando a cavallo la via dei Colli giunse a Paderno, dove se ne procurò alcuni esemplari, citando poi la Pietra anche nel Werther. E’ lecito pensare che Goethe, sedicenne, abbia conosciuto la fosforescenza dallo studioso di fisica J.F. Metz che lo iniziò alle pratiche dell’alchimia. Nello stesso periodo a Bologna prosperavano i commerci di questa autentica rarità. Infatti fu il padre di Goethe che durante il suo viaggio in Italia nel 1740, affascinò il giovane Wolfgang portando a Francoforte la pietra calcinata che i commercianti bolognesi vendevano come souvenir ai colti viandanti del “700. Nel clima di curiosità e di diletto che a livello popolare incoraggiava il lavoro degli studiosi sui “mirabilia minerali e naturali”, ben si comprendono le burle che la pietra ispirava e a tal proposito se ne parla nel romanzo storico “Lo Spirito” edito da SSS: da una testimonianza raccontata da un discendente del sig G.Gabrielli, nativo della valle del Savena, viene spiegato il perché Gaetano Prosperi venne soprannominato Lo Spirito; la sorella del Prosperi, raffigurata come abile alchimista, si dilettava nel preparare l’impasto fosforescente della Spongia Lucis onde cospargerlo sui vestiti del brigante Spirito: “nei pressi di Monghidoro, il giovane Gaetano, si divertiva a spaventare tutti quei malcapitati che passavano da Lognola, quando dopo l’Ave Maria nelle sere di luna piena, si acquattava in mezzo ai campi vicino alla strada principale e nel momento in cui sopraggiungeva qualche viandante, scattava in piedi con ululati spettrali, eseguendo la ruota in mezzo ai campi cosparso di una polverina fosforescente. Inutile dire quale potesse essere la reazione degli atterriti spettatori, ancor peggio se transitavano a cavallo o in carrozza, coi cavalli imbizzarriti che partivano terrorizzati a spron battuto, o i fedeli che avranno visto in quel diavolo lo spirito di chissà quale morto seppellito nel cimitero poco distante”. Lo scopritore della Spongia Lucis, Vincenzo Casciarolo, cui è stata dedicata una via nei pressi di Viale della Repubblica, trovò la pietra "alle radici" del Monte Paderno, a pochi chilometri dal centro di Bologna, nei pressi del rio Strione che dalla chiesa di Paderno scende verso la località di Rastignano. La Spongia Lucis è visibile presso il museo di Mineralogia L.Bombicci a Bologna. Uno dei massimi esperti sulla Spongia Lucis è il Prof Marco Taddia docente di chimica all’Università di Bologna.

Claudio Evangelisti