"Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso per chiudere verso sud il continente tra due mari (....) è un così bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l'una dall'altra; spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l'acqua."
J. W. Goethe, Viaggio in Italia (1786 - 1788)
Storia sull'Appennino Tosco - Emiliano.
Scritti di Claudio Evangelisti


Titolo: I MISTERIOSI “FACCIONI” COMACINI DELL’APPENNINO (2012-10-30)



I MISTERIOSI “FACCIONI” COMACINI DELL’APPENNINO BOLOGNESE

I Maestri comacini si fecero preziosi custodi dei segreti dell’arte muraria. Il loro stile decorativo evoca simboli arcaici, spesso tramandati dalle culture classiche e ispirati alle grandi forze del mondo contadino: così i “faccioni”, che sostituiscono simbolicamente l’antica usanza di seppellire i corpi di vittime sacrificali sotto le fondamenta della casa. In questo modo le abitazioni si trasformano in “case-amuleto”, capaci di propiziare la natura e allontanarne i pericoli. La tradizione comacina si diffuse a partire dal Trecento in gran parte dell’Appennino toscoemiliano”.
Un tipico simbolo distintivo dei maestri comacini era la “Rosa Comacina”, simbolo di buon auspicio e come tale messo anche sul pane (oggi è nelle forme per le tigelle ). Si tratta, infatti, di un simbolo dalle origini antiche, citato anche su una stele etrusca del IV secolo ritrovata nel Bolognese, che compare fin dall’epoca del bronzo. Nel tempo, la Rosa Comacina - il cui nome deriva dal termine “Comacini” con cui venivano indicati i mastri scalpellini lombardi è stata chiamata anche rosa celtica, fiore a sei petali, rosa dei pastori e definita nel medioevo anche rosa carolingia e sole delle alpi. Riproposta recentemente da Maini è la teoria che ritiene i volti di pietra altorenani di derivazione CELTICA; nella cultura celtica, infatti, la testa rappresenta la sede delle maggiori virtù dell'uomo per cui era usanza, presso i guerrieri gallici, usare le teste dei nemici uccisi per "abbellire" le proprie case. Di questa tradizione fanno menzione sia Strabone che Diodoro Siculo: "Al ritorno dalla battaglia i celti appendono le teste dei nemici al collo dei cavalli, per poi attaccarle come ornamento ai portici delle case. Dice Posidonio di aver visto spesso coi propri occhi tale spettacolo e di essersi in principio disgustato, finendo però dopo col sopportarlo per abitudine. Le teste degli uomini illustri poi, conservate con olio di cedro, le mostravano agli ospiti e non acconsentivano al riscatto, neppure a peso d’oro.