"Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato. Alla grande pianura della regione padana segue una catena di monti che si eleva dal basso per chiudere verso sud il continente tra due mari (....) è un così bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l'una dall'altra; spesso non si può nemmeno distinguere in che direzione scorre l'acqua."
J. W. Goethe, Viaggio in Italia (1786 - 1788)
Storia sull'Appennino Tosco - Emiliano.
Scritti di Claudio Evangelisti


Titolo: Acquafresca i signori degli schioppi (2016-01-07)



Sono in pochi a sapere che la storia delle armi da fuoco passa inesorabilmente da una località sperduta dell’Appennino bolognese. Le preziose armi e le produzioni artistiche degli Acquafresca sono conservate in importanti musei di tutto il mondo: a Londra, Parigi, al Metropolitan Museum di New York, a Washington, nei musei Tedeschi, in Svizzera e ovviamente a Bologna e nei più importanti musei italiani, oltre che nelle segrete collezioni private. Per comprendere il valore di queste opere d’arte, tra cui la stupenda tabacchiera conservata al Victoria and Albert Museum di Londra, basti pensare che a Bologna, un Marchese vendette un archibugio firmato Matteo Acquafresca e con il ricavato ristrutturò un suo palazzo in centro. Attorno al 1600 quando il tempo delle cosiddette armi bianche volgeva al tramonto, una famiglia di geniali possidenti terrieri di Bargi, eccelsi forgiatori e maestri incisori, rivoluzionarono la storia contemporanea con l’invenzione dell’archibugio a ripetizione. Successivamente i discendenti, portarono a termine l’innovazione della retrocarica, così come funzionano oggi, le armi da fuoco moderne. La loro discendenza proviene dalla dinastia dei Cecchi, schiatta di fabbri ferrai originari di Creda e che dopo il loro trasferimento nella vicina Valle del Limentra, lentamente assumerà e cambierà il cognome in Acquafresca. Ciò avvenne per la presenza del pozzo d’acqua fredda che si trovava nell’antica casa che i Cecchi acquistarono nel 1585 in località Pianacci a Bargi. Qui inizia la leggenda del “Signore degli Schioppi” come il titolo del libro scritto a quattro mani da Gabriele Cremonini e Osvaldo Acquafresca. Il signor Osvaldo che ha sapientemente ristrutturato l’atavica dimora storica di Pianacci, è discendente diretto di questa antica dinastia che fa parte di una ristretta rosa di nomi ai quali si può attribuire il perfezionamento, se non l'invenzione, di un certo tipo di arma a più colpi ed a retrocarica nata e diffusasi nella seconda metà del Seicento. Il primo degli armaioli di Pianacci ad assumere rinomanza, fu Sebastiano Acquafresca che usava il ferro della più antica ferriera dell’Appennino bolognese, situata in località Le Fabbriche di Stagno, là dove scorre il Limentra. Fu sua l’invenzione di un archibugio a ripetizione, in cui una ruota a quattro scatti permette di caricare simultaneamente palla e polvere. Il suo rivoluzionario marchingegno permetteva così di anticipare e colpire prima, gli avversari indaffarati a caricare i loro archibugi dalla bocca della canna.
Il furbo Lorenzoni
Chi ha inventato la retrocarica? Un testo basilare sulle armi da fuoco moderne è sicuramente quello di Gianoberto Lupi che nel 1976 fa stampare: I primi fucili a ripetizione. Lupi scrive: “Quello che per il mondo va come fucile a ripetizione sistema Lorenzoni, fu veramente opera dell’armaiolo fiorentino?” Nel 1960 un'altra autorità in materia e cioè il milanese Giorgetti direttore di vari musei di armi antiche, scriveva: “Un geniale tipo di arma a ripetizione a 25 colpi, non mai superata fino al 1850, è quella dell’armaiolo bolognese Acquafresca che visse tra il 1600 e il 1690”. E’ molto probabile che all’epoca, Sebastiano si sia recato al mercato di Firenze per vendere le sue armi e il fiorentino Lorenzoni titolare di un’avviata bottega di armi e più esperto nelle relazioni, gli abbia soffiato l’idea, tanto più che una volta non esisteva l’ufficio brevetti. Occorre aggiungere che il nostro Bastiano superò in tecnica, anche il danese Kalthoff che nel 1645 costruì un fucile a ruota capace di sparare trenta colpi, ma il serbatoio delle palle era ancora sotto la canna, mica come l’Acquafresca che aveva già ideato il caricatore dei proiettili nel calcio del fucile… Ma il protagonista principale della parabola degli Acquafresca fu il figlio Matteo nato nel 1651, che divenne l’armaiolo più conteso dalle corti europee. Matteo, dotato di grande talento come cesellatore e incisore, tecnicamente, fu tra gli armaioli più avanzati del suo tempo e il suo archibugio conservato al museo di Birmingham aveva già richiamato l’attenzione degli studiosi, oltre un secolo fa.

Altra opera di ineguagliabile fattura è la coppia di pistole datate 1690, firmate da Matteo Acquafresca e conservata al Metropolitan Museum di New York. Per progettazione ed esecuzione è paragonabile ai migliori esempi parigini contemporanei, ma i meccanismi e gli ornamenti danno loro un carattere spiccatamente italiano. Come le sue migliori pistole questa coppia è rivestita in ebano, il legno scuro che serve come pellicola, ideale per supportare gli intarsi in acciaio brillante e filo d'argento.

Gli ornamenti abbondano su ogni superficie, con diversi motivi come maschere, uccelli, animali fantastici, figure umane e decorano ciascuna delle pistole. Il rivestimento con busti maschili e femminili cesellate in bassorilievo su placche di acciaio nelle impugnature sono state sicuramente create per la corte medicea di Firenze e raffigurano Cosimo III granduca di Toscana e la sua consorte. Oltre ad essere fornitore ufficiale di armi del Granduca di Toscana e del Conte Ranuzzi, signore della contea di Pian del Voglio, Matteo fu anche cancelliere dell’Arengo di Bargi, lasciando preziose cronache dell’epoca per un arco di tempo compreso tra il 1696 e il 1723. In esso vi sono contenute narrazioni di eventi memorabili come l’eccezionale nevicata del 1694 giorno della festa di san Tommaso:“Principiò a nevare et andò dietro per 44 giorni nevando ogni giorno qualche poco e non vi è memoria mai di una sì fatta”, ma anche di accadimenti come le investiture papali e le successioni nel Granducato di Toscana o narrazioni di angherie e banditismo come quelle esercitate dalla famiglia Butelli, dinastia di sicari al soldo del Granduca e dei Pepoli, che proiettano il lettore nel pieno delle atmosfere particolari di quella zona del Suviana. Alla morte di Matteo avvenuta nel 1737, l’unico discendente che proseguì con un certo successo l’arte dell’ armaiolo, fu il nipote Pietro Antonio (1732-1809). Agli inizi dell’Ottocento non si trova più traccia della mirabile attività degli Acquafresca, iniziata due secoli prima. Pecora nera della famiglia fu Giovan Francesco detto Scavezzacollo nato nel 1833 e figlio di Pietro Antonio. Costui dilapidò l’intero patrimonio accumulato nel corso dei secoli in gioco, vino e donne. Riuscì perfino, nell’esecrabile impresa, di bruciare i preziosi disegni tecnici dei suoi illustri antenati per accendere il camino, oltre ad usare quella parte del prezioso mobilio, che non aveva ancora venduto ai creditori, per scaldarsi! Dall’inizio Ottocento in poi questi impareggiabili artisti dovettero arrendersi alla potente industria delle armi con le terribili conseguenze che ci conducono oggi, alle tragiche e attuali vicende. L’officina e la casa di Pianacci che era caduta in un grave stato di abbandono è stata però salvata dalla rovina per mano di Osvaldo e dei suoi sei fratelli tutti maschi. Osvaldo Acquafresca che ora è in pensione, abita a Bologna e si diletta nella ricostruzione di alberi genealogici. Oltre a restaurare mobili antichi e i fucili dei suoi avi, ha organizzato mostre di armi antiche coinvolgendo la discendenza nel recupero delle vestigia superstiti. A Firenze vive e opera il maestro Fabrizio Acquafresca rinomato artigiano che lavora l’argento con la stessa perizia dei suoi avi. Un’ultima curiosità: anche il Robert Acquafresca calciatore del Bologna, fa parte dell’albero genealogico di questa famiglia. I manoscritti e altri documenti firmati da Matteo Acquafresca sono conservati presso l’archivio della stupenda Casa Comelli a Bargi e all’archivio di Stato di Bologna.
Claudio Evangelisti